lunedì 4 aprile 2011

Laboratoria sulla tendopoli.

Questa estate, in occasione del “Premio alla Cultura” organizzato ad Oria allo scopo di rendere omaggio agli illustri oritani che attraverso il loro lavoro, i loro sforzi o semplicemente le loro passioni hanno contribuito al progresso culturale del nostro paese, fu chiesto a Laboratoria di presentare un proprio contributo. Entusiasta della proposta, la nostra associazione si occupò di realizzare un piccolo video in cui si chiedeva a semplici cittadini oritani, per la maggior parte persone anziane di umili origini culturali, che cosa per loro volesse dire il tanto abusato termine cultura. Non si vuole qui nascondere che l’iniziativa aveva come sottofondo un velato risvolto polemico. Ci si immaginava già infatti, l’effetto che le parole delle persone intervistate avrebbe suscitato all’interno di una serata programmata all’insegna della cultura per così dire ufficiale, in cui illustri conoscitori della cultura oritana e non solo, si sarebbero succeduti sul palco a parlare del valore di questa parola all’interno della società civile. Con sorpresa il risvolto polemico non fu colto da nessuno, forse perché l’inchiesta non fu presa minimamente sul serio. Le uniche reazioni furono i sorrisi della gente presente alla serata, che si rallegrò di questa breve parentesi ironica. Si rideva probabilmente del contrasto che le parole confuse degli intervistati, espresse per la maggior parte attraverso l’uso del dialetto locale, crearono scontrandosi contro i brillanti discorsi degli ospiti da premiare. Eppure, a ben vedere, nessuno fra quest’ultimi fu capace, in occasione di un evento interamente dedicato alla cultura, di riportare seppur per un attimo in luce la radice di questo termine.
Noi fummo i primi a meravigliarci quando invece, durante le riprese, ci trovammo di fronte un signore sulla sedia a rotelle, il quale alla domanda che cosa fosse per lui la cultura, con voce timida e tremante, timidamente rispose: "La cultura iu no la sacciu. La coltura, quedda sacciu iu. Robba di contadini». In modo inaspettato e senza alcuna intenzione, quest’uomo - scomparso poco tempo dopo - aveva riesumato la radice del termine che deriva dal latino “colere”, vale a dire, “rendere fertile la terra”. Laboratoria a questo punto si preoccupò di ampliare il senso di questa frase, estendendola al di là dell’intenzione di chi l’aveva scoperta, in direzione di un senso più ampio. Alla fine del video, un’altra frase emetteva il giudizio complessivo sulla nostra ricerca: cultura vuol dire rendere fertile la terra tanto concretamente, attraverso il lavoro e il contatto con essa, quanto attraverso il lavoro silenzioso del pensiero che si preoccupa di portare all’interno della terra - intesa questa volta come comunità d’individui - le premesse teoriche per la fertilità di quel terreno particolare dove crescono le idee, le leggi, i principi, le speranze.
Qualcuno potrebbe però a questo punto domandarsi, quale sia il contributo che una tale riflessione è capace di dare per la risoluzione delle complicate problematiche che, proprio in questi giorni, la comunità oritana si trova a fronteggiare. A nostro modo di vedere il contributo può esserci, seppure - e di questo siamo i primi a rammaricarcene - soltanto teorico. In generale in questi giorni, leggendo i commenti dei cittadini oritani sui vari forum dedicati alla città, ci si è resi conto dell’assoluta incapacità della nostra piccola comunità di reagire in modo responsabile ad un problema pesante come quello dell’improvvisa invasione di clandestini o profughi - ognuno dia a questi due termini il significato che più gli aggrada - e della conseguente installazione di una tendopoli presso l’ex campo dell’aviazione. Sono in tanti, soprattutto giovani, che hanno accusato la comunità oritana di ignoranza. Per pura comodità si può riassumere il pensiero di questa fetta di comunità nella frase "è l’ignoranza che genera la violenza». Innanzitutto, in quanto associazione di giovani, noi vogliamo prendere le distanze da questa interpretazione. Non ci ritroviamo in questo giudizio proprio a causa delle riflessioni a cui siamo stati spinti dopo aver finito di realizzare il nostro contributo per il Premio alla Cultura. In quell’occasione abbiamo quasi materialmente potuto constatare, l’infinita fonte di saggezza riposta al sicuro nel cuore della popolazione ignorante. Quella sorta di Santa Ignoranza che ha accompagnato gente umile e costretta a sopportare probabilmente - anzi sicuramente - restrizioni ben più enormi delle nostre attuali rivendicazioni contro l’assenza di un futuro, lungo tutto il percorso della propria esistenza, sottostando all’unica legge che per la loro scarsa cultura potevano comprendere: quasi un tacito imperativo che nel loro cuore risuona come un tuono: "io non so niente e per questo non posso pretendere di imporre agli altri la benché minima opinione, che la complessità della vita - e loro soltanto sanno quanto sia stata difficile - mi vieta categoricamente tra l’altro di emettere".
Si potrà però ancora a questo punto obiettare: "non era forse un ignorante quel signore che compare nel video postato da Oria Info, il quale dopo avere catturato un immigrato lo riconduceva al campo, sbraitando alle sue spalle in un incomprensibile miscela fra italiano e dialetto?". La risposta è secca e categorica: assolutamente no! Quell’uomo parlava di un Stato assente, aveva persino una vaga idea di che cosa fosse l’Europa, e quali fossero le sue responsabilità in tutta questa faccenda. E no signori! Questa non è ignoranza. Questo è il prodotto di una cultura malata, della cultura passiva appresa attraverso la televisione e i giornali. Certe idee la vita non le insegna, e il vero ignorante riconosce solo in quest’ultima la sua indiscussa Maestra. Ma non è finita qui: si potrebbe ancora dire, visto che si è parlato del ruolo della televisione, che non si può negare che sia stato proprio questo nuovo e potente mezzo ad insegnare, alla fine della seconda guerra mondiale, al popolo incolto e frammentato in una sterminata varietà di dialetti, la lingua italiana. Ad una simile possibile obiezione rispondiamo: questo c’insegna la storia; ma la storia non si preoccupa affatto di chiamare a far parte del suo accadere coloro i quali non usufruiscono dei suoi mezzi. I veri ignoranti sono quelli che l’italiano non riescono a masticarlo nemmeno oggi, e il fatto che il signore sù citato adoperasse un doppio modulo linguistico, deve farci riflettere. Solo un’amara considerazione: se proprio si doveva istruire questi promessi italiani alla lingua italiana, perché scegliere un mezzo come la televisione e non semplicemente i libri di Dante o Pasolini?
Un’altra, purtroppo assai folta fetta della comunità, si è invece abbandonata totalmente alla paura, e non ha esitato ad esprimere commenti xenofobi consapevoli o meno. Non è difficile prendere le distanze da questa schiera - almeno apparentemente, poiché la paura purtroppo è uno di quei sentimenti che difficilmente si lascia dominare. A gente siffatta non si può nient’altro che dire: «La paura mangia l’anima»; state attenti a quello che dite e abbiate cura delle parole, poiché chi maltratta quotidianamente le parole potrebbe non avere nessuno scrupolo a fare lo stesso con gli uomini. Gente di questo tipo dovrebbe semplicemente imparare ad utilizzare le parole senza che sia la paura a suggerirgliele, o peggio ancora una qualsiasi ideologia o politica pseudo-legalitaria.
L’ultima fetta di comunità oritana, questa volta meno affollata, ma in compenso la più consapevole della propria forza, è stata quella composta da gente particolarmente istruita, che proprio in virtù della sua ampia conoscenza dei meccanismi istituzionali che reggono situazioni di questo tipo, ha creduto di poter pronunciare la parola definitiva su tutta questa faccenda. Si potrebbe, sempre e solo per comodità di sintesi, unificare tutta questa gente sotto il nome di: “gli appassionati di politica” - poiché la politica lungi dall’essere una professione, pare essere di questi tempi prima di tutto una passione. Leggendo i commenti di gente appartenente a questa categoria, si è potuto assistere ad un infinito delegare la responsabilità dei tristi accadimenti che nel frattempo imperversavano in Oria, a istituzioni progressivamente sempre più influenti. Il tutto con una puntigliosità di particolari e di rimandi ad articoli e normative impressionante, da fare invidia al più scrupoloso dei giuristi. É proprio con gente siffatta che Laboratoria pare essere più incapace di istituire un confronto, non fosse altro per il fatto che è difficile confrontarsi senza essere accusati di scarso senso pratico. Il motivo di una tale incomunicabilità risiede a ben vedere, nella contrapposizione di due modi contrapposti di vedere la realtà. Laddove i cultori delle vie istituzionali riconoscono il loro punto di partenza nella politica, Laboratoria lo riconosce nell’arte. Alla rigida e rigorosa logica politica si viene dunque a contrapporre l’assolutamente a-sistematica incomprensibilità dell’arte. Si tratta solo a questo punto di capire quale delle due prospettive sia in grado di riprodurre con più fedeltà - può trattarsi sempre e solo di un imitazione, poiché solo la realtà può essere l’assoluta e incondizionata fonte originale - i lineamenti del reale. É l’azione politica lo specchio più adatto ad una proiezione di questo tipo, o lo è l’arte? Una riflessione del genere richiede un’analisi profonda di ambedue le concorrenti. Poiché la totalità della realtà è troppo complessa per fungere da paragone, non ci resta che adoperare come criterio di giudizio un singolo caso isolato che la realtà ci offre. Prendiamo quello che in questo caso ci sta più a cuore, ossia l’inadatta - definirla tale ovviamente è un eufemismo fin troppo generoso - reazione della comunità oritana all’arrivo improvviso delle centinai d’immigrati in fuga dagli orrori che stanno sconvolgendo attualmente i loro paesi. Il dato di fatto è che tale reazione si è dimostrata essere a dir poco inumana. Quello che bisogna capire è se questa terribile incapacità di accogliere persone in difficoltà, debba essere attribuita alla scarsa educazione politica della comunità oritana, o non piuttosto alla sua scarsa sensibilità artistica.
Quasi tutti al mondo d’oggi sono disposti a considerare dogmaticamente sacri quei principi fondamentali raggiunti attraverso la lotta politica che vanno sotto il nome di diritti fondamentali dell’uomo. Essi costituiscono indiscutibilmente le fondamenta dell’odierna politica democratica e giacciono come leggi eterne sulla carta di quasi tutte le costituzioni del mondo. Nessun sano di mente si permetterebbe di metterle in discussione. Quindi almeno a livello dei principi fondanti, si può dire che la stragrande maggioranza degli individui abbia la vaga consapevolezza di quali siano i presupposti fondamentali che stanno alla base dell’agire politico. Essendo l’Italia un paese democratico e trovandosi Oria in Italia, dobbiamo per forza assumere la premessa che anche gli oritani, nel momento in cui hanno agito «come hanno agito» erano consapevoli di questi diritti. Eppure ci si è ostinati ciononostante ad attribuire la colpa all’ignoranza politica della comunità oritana, tirando in ballo costituzioni, articoli fondamentali, trattati internazionali, e chi più ne ha più ne metta.
Assolutamente a nessuno di coloro che hanno visto nella comprensione profonda dei meccanismi istituzionali - comprensione che significa al contempo accusa a quelle frange della politica che abusano del loro potere per forzare tali meccanismi - è passato per la testa che, la barbarie a cui la comunità oritana si è abbandonata seppur per un solo giorno, potesse avere la sua radice da tutt’altra parte.
A questo punto però, non si vuole di contro rischiare di commettere lo stesso errore. Ci si aspetterebbe che adesso Laboratoria si facesse promotrice di una campagna pedagogica dell’arte. Come dire: «visto che l’educazione politica non ha avuto alcun risultato, proviamo a vedere se l’arte è in possesso di un potere educativo maggiore?». Assolutamente no! Ciò non potrà mai avvenire - almeno fin quando l’arte vorrà continuare ad essere arte - per il semplice fatto che l’arte, diversamente dalla politica, non ha mai cercato l’ordine immanente, nemmeno, a rigor di termine, nelle sue propaggini classiche e neoclassiche. La sua meta è sempre stata la ricerca dell’incomprensibile, e in ciò è seconda solo alla religione. Adesso è proprio in questa ricerca dell’incomprensibilità che noi possiamo ritrovare il riflesso di una proprietà che appartiene alla realtà in modo eminente. La realtà è incomprensibile, e se l’arte vorrà rimanerle fedele dovrà anch’essa farsi incomprensibile. Ci si chiederà: quali sono i vantaggi che questa metafisica osservazione può avere all’interno della società civile?
Ammettendo che i cittadini oritani possano riuscire a cogliere ciò che, a prima vista può apparire solo come un’astratta speculazione, potrebbe ciò aiutarli ad imparare a comportarsi in modo civile? Purtroppo neppure a quest’ultima domanda può essere data una risposta definitiva, se si vuole restare fedeli a ciò che l’arte è, e dovrebbe continuare ad essere. Per lo stesso motivo per cui non crede alla «estetizzazione della politica» Laboratoria non può credere nemmeno alla «politicizzazione dell’arte». Attribuirle un qualsiasi potere all’interno della società civile equivarrebbe a fare di essa una politica, a deviare la sua meta che tende per natura verso l’incomprensibile, in direzione della costrizione dell’ordine. Solo una cosa è certa però: proprio in quanto tende all’incomprensibile l’arte, diversamente dalla politica, non potrà mai assumere nulla in modo dogmatico. Con sguardo crudele essa può sondare profondità che nessun giudizio logico sarà mai in grado nemmeno d’intravedere. Di fronte ai pregiudizi, alle ottuse opinioni, addirittura di fronte ai sopra citati diritti fondamentali dell’uomo, essa non saprà mai prostrarsi in modo dogmatico. Sia chiaro però, solo in modo dogmatico, perché laddove essa dovesse riconoscervi i tratti indelebilmente umani della realtà, non potrà far altro che inchinarsi a contemplarli. Questo infatti è il suo ultimo compito: riconoscere la natura umana nella sua incomprensibile complessità di sfaccettature, riproducendone fedelmente i tratti, senza violentarli. L’arte è prima di tutto accoglienza dell’incomprensibile, di tutto ciò che non può essere catturato, ma solo accolto. L’immagine dell’artista che attende la sua ispirazione prima d’agire, riproduce splendidamente questo movimento che dall’altro si fa incontro all’io che lo accoglie; non lo produce, non lo cattura, ma semplicemente lo attende con pazienza e senza alcuna paura. Accoglienza che forse i cittadini oritani non hanno saputo offrire a quell’incomprensibile per eccellenza che è sconosciuto, forse perché sono ancora troppo distanti dal credere che, nelle insondabili astrattezze dell’arte, si possa nascondere la radice di un agire estremamente concreto.
Fabio Ancora

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